La band domani 4 gennaio sarà in concerto allo Stammtish Tavern di Chieti Scalo per la terza volta in tre anni
CHIETI – I Sulutumana tornano live domani 4 gennaio allo Stammtisch Tavern di Chieti Scalo per la terza volta in tre anni. La band ha nel tempo costruito un suo fedele pubblico nella nostra regione grazie ad una proposta musicale originalissima e di altissima qualità. “Vadavialcù” , ultimo album dei Sulutumana, il sesto di inediti, è una naturale evoluzione del loro modo di concepire la musica, sempre in continuo movimento e mai ferma a quanto già fatto e scritto in precedenza. Il risultato? Un folk fedele alle radici della band, ma contaminato con sonorità diverse che ancora una volta rende difficile “imprigionare” i Sulutumana in un preciso genere ….
I Sulutumana sono i Sulutumana: se li si ascolta si rimane rapiti da un mondo fatto di atmosfere affascinanti che in Italia è decisamente poco comune.
Quest’anno la band festeggia i vent’anni dalla formazione e dunque ecco il nome dell’attuale tour, “20venti SULU Tour”. Sul palco dello Stammtisch Tavern i Sulutumana proporranno la loro arte musicale ed ospiteranno il cantautore guardiese Alfredo Scogna, amico con il quale ripercorreranno anche alcuni brani del vastissimo repertorio di Fabrizio De André.
Questa la nostra intervista con Gian Battista Galli, voce dei Sulutumana.
Come definiresti i Sulutumana per presentarli a chi non li conosce?
“Li presenterei come qualcuno che ha qualcosa da dire che valga la pena di essere ascoltata. Musicalmente mi guarderei bene dal definirli, eviterei cioè di fare una premessa sul genere. La musica è un qualcosa di fluido che arriva, le definizioni le stanno strette”.
Il vostro nuovo lavoro, “Vadavialcù”, è un’evoluzione di tutto ciò che sono stati i Sulutumana fino ad oggi: come lo descriveresti?
“È un disco al passo coi nostri tempi, è uno specchio fedele del percorso fatto finora e della nostra maturazione artistica conseguita nel tempo. Veniamo da una matrice più folk che però abbiamo voluto, cammin facendo, approfondire per abbracciare altri linguaggi che potessero arrivare anche altrove. Questo è un album che conserva sicuramente la matrice folk, ma musicalmente incontra altri linguaggi con l’utilizzo di strumenti differenti. È un’evoluzione della nostra natura folk, è un modo per poter capire quale strada stiamo percorrendo e quale percorreremo in futuro. Il pubblico ci dà la risposta a questo quesito, ma ce la diamo anche noi nel momento in cui scriviamo una canzone e ci piace nel preciso istante in cui lo componiamo”.
C’è una canzone che lo rappresenta meglio a tuo giudizio?
“Dal mio punto di vista è “Enigma”, ovviamente è un giudizio soggettivo: questo pezzo contiene tutti gli elementi artistici del nostro percorso artistico degli esordi e poi ce ne sono altri che non vorrei definire moderni, ma parlerei più di contaminazione. Il risultato è un linguaggio evoluto rispetto a quello dei nostri inizi: sai da dove arriva e sai allo stesso tempo che ne ha fatta di strada. Siamo partiti dalla radice folk che ci ha contraddistinti per poi contaminarla e non camminare sul posto, ci piace cioè andare oltre quanto fatto in precedenza. Ho detto spesso che la cosa alla quale teniamo di più è sorprendere e sorprenderci allo stesso tempo. Se ci riconosciamo troppo nel nostro lavoro precedente ci fermiamo, dobbiamo invece ogni volta fare qualcosa di nuovo sia per noi che per il nostro pubblico: ti scopri e ti riscopri”.
Il titolo del disco è “curioso”: “Vadavialcù” è la parolaccia più famosa della Lombardia e più musicale del mondo ….
“Cercavamo un termine universale e, come spesso succede, lo si trova nei dialetti e nelle parolacce. Quando diciamo ad esempio “Li mortacci tua” è sì un termine romanaccio, ma anche universale allo stesso tempo: lo diciamo anche a Como ad esempio. Sono termini che sono anche parolacce alle volte, hanno una volgarità che però il dialetto smussa deliziosamente e diventano bonari. “Vadavialcù” è un termine di esportazione del dialetto milanese: l’abbiamo voluto proporre come fosse un mantra, una sorta di terapia liberatoria. Noi l’intercaliamo non tanto per offendere qualcuno, ma per rivolgerci a noi stessi per eliminare un momento di stress o di particolare difficoltà. L’abbiamo preso da un film di Ugo Tognazzi che ha dunque “prestato” la sua voce nel brano omonimo grazie al benestare del figlio Ricky. Volevamo lanciare un messaggio universale che potesse essere ironico e terapeutico allo stesso tempo: nella canzone c’è questa sorta di lista della spesa nella quale ciascuno di noi si può ritrovare, ognuno può scegliere come dire questa parola e a chi rivolgerla non tralasciando però di rivolgerla prima di tutto a se stesso”.
Avete un grande pubblico oltre i confini nazionali: come lo avete conquistato?
“È stata in un certo senso una scommessa derivante da una ragione geografica e logistica: noi siamo quasi al confine e c’è una naturale proiezione verso la Mitteleuropa, questo ha favorito questa esperienza all’estero. Già una dozzina di anni fa partecipammo ad alcune fiere dello spettacolo ed avemmo degli ottimi riscontri per la nostra proposta artistica. Da allora abbiamo iniziato a tenere dei concerti e incontrare un pubblico fondamentalmente diverso da quello italiano perché è curioso e molto poco affascinato dal mainstream. Siamo stranieri e dunque loro hanno fascinazione nel voler capire cosa noi vogliamo dire. La maggior parte delle volte il pubblico che viene ai nostri concerti non sa neanche chi siamo e vuole scoprirci: le sale sono piene anche se non sta arrivando a suonare il gruppo di grido o conosciuto dalle radio e tv, ma uno che terrà un concerto. La gente si accomoda in poltrona, all’interno dello spettacolo si diverte e si emoziona e alla fine esprime un giudizio”.
Questa sarà terza volta volta in tre anni che suonerete allo Stammtisch Tavern di Chieti Scalo: cosa vi aspettate voi dal pubblico e cosa il pubblico deve aspettarsi da voi?
“Ci aspettiamo ciò che sappiamo di poter ottenere: fare una bella serata apprezzata dal pubblico. Considerato il fatto che siamo distanti da casa nostra, se c’è un messaggio che ci piace dare è che, se l’Italia è il paese dei mille campanili, è anche vero che è quella di un solo popolo: per fare un esempio, c’è tanto dell’Abruzzo nel paese dal quale proveniamo, Canzo, e sono sicuro che ci sia tantissimo Canzo anche dove stiamo andando. È un incontro che, fatte le dovute proporzioni e considerate le diverse caratteristiche, potrebbe essere bellissimo. Quando saliamo sul palco per suonare le nostre canzoni, sappiamo benissimo che quelle potranno appartenere a coloro che le stanno ascoltando. Ci piace portare la nostra musica ovunque indipendentemente dal pubblico che abbiamo di fronte: la metafora è quella dell’albero, hai cioè delle radici ancorate al terreno, il terreno è il luogo dal quale provieni ed è la cosa che sai raccontare meglio. quell’albero ha poi i tronchi e i rami che vanno a cercare tutte le latitudini possibili. Questo rappresenta la musica a mio giudizio”.