Febbraio, 2020

15feb18:0021:00Paolo Dell'Elce in "Vite minori" al Museo delle Genti d'Abruzzo

vite minori 15 febbraio 2020

Quando

(Sabato) 18:00 - 21:00

Dove

Museo delle Genti D'Abruzzo

Via delle Caserme, 24, 65127 Pescara PE

Informazioni sull'evento

Sabato 15 febbraio dalle 18 al Museo delle Genti d'Abruzzo, Paolo Dell'Elce presenta "Vite minori" a cura di Mariano Cipollini. Dopo più di quarant’anni dedicati ad una disciplina estetica: la Fotografia, si sente il bisogno di tirare i remi in barca, volgersi indietro, guardare il punto di partenza, e, come dice Eliot, conoscerlo per la prima volta. È come se all'improvviso tutto quello che hai fatto e hai pensato nella tua vita si materializzasse di colpo davanti a te. Ho scelto di dedicarmi professionalmente alla Fotografia nel 1977.

La Fotografia, subito, mi ha schiuso un universo percettivo misterioso, affascinante, seducente: il luogo dello sguardo. La pratica dello sguardo, il suo affinamento, mi ha donato corrispondenze misteriose, mi ha permesso di accedere a stati di coscienza e conoscenza molto profondi, di pormi davanti alle cose con semplicità, spogliato di ogni pregiudizio culturale, pronto a vedere, a capire.

Ho cominciato il mio lavoro guardando attraverso l’obiettivo di una reflex, affascinato dalla meravigliosa possibilità di “focheggiare”, di mettere a fuoco l’oggetto, di farlo sorgere dall’indistinto della luce, dalla sua materia informe, metafora visiva del processo intuitivo della conoscenza. Per molto tempo ho fotografato “soltanto” fili d’erba e rami secchi, ma sapevo che in fondo a questa strada un giorno avrei incontrato il volto dell’uomo: il suo mistero, la sua bellezza.

Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare. Ritorneremo al punto di partenza. Per conoscerlo per la prima volta [Thomas Stearns Eliot]

“Vite minori” è una Mostra che si prefigge di risalire un percorso estetico ed esistenziale attraverso cicli di immagini, momenti di vita diventati frammenti iconici grazie al linguaggio della Fotografia. Un modo per ritrovare il tempo e le forme che hanno strutturato la “memoria sensibile” dell’autore nell’opera fotografica.

Con leggerezza Paolo Dell’Elce ci regala la sua esperienza visiva senza l’ossessiva necessità di trattenere quell’identificazione iconografica così indispensabile per riconoscersi in un ruolo, senza l’urgenza di appartenere a questa o a quella corrente al solo scopo di rafforzare la sua attendibilità. Il suo io non ha più bisogno di servirsi di un proprio codice di riconoscimento (ammesso ne abbia avuto uno) sul quale costruire un’identità di genere convincente che lo inserisca di prepotenza in prima fila. Queste non impellenze lo hanno liberato da ogni condizionamento esterno e non hanno in nessun modo sfaldato o indebolito il suo lavoro, anzi l’esatto contrario: rafforzandolo, hanno forgiato, tra l’altro, un grande teorico dell’immagine. Indipendente nel pensiero, sempre rigoroso e incisivo, strutturato, meravigliosamente identificabile. Questa spoliazione dal sapore francescano lo inserisce tra le personalità più rappresentative che si ostinano a ricondurre la fotografia sui sentieri della parola, del racconto orale, della pura poesia. Le narrazioni semplici e defilate, i particolari poveri e trascurabili, lontani dal fasto del protagonismo e dell’assoluta perfezione codificata – requisiti oggi ritenuti indispensabili per far sì che una vita sia degna di essere rappresentata a prescindere dal contenuto – propongono la quotidianità di una natura espressa in tutta la sua sostanza. Il costante richiamo della madre terra, nelle sue pieghe più intime, lo conduce a rinnovare l’antico patto che fin dalle origini, nel bene e nel male, ci identifica con prepotenza come i suoi figli legittimi. Nei suoi scatti non c’è differenza tra il mormorio delle chiome dei pini al vento come macchie d’inchiostro su carta giapponese e i silenzi parlanti delle mani conserte dei suoi anziani. Tra le musicalità accennate dall’aria in un turbinio di sterpaglie scomposte come rughe di un volto, con le nenie domestiche sussurrate dagli oggetti nelle sue sospese atmosfere d’interni. L’ostinazione nello scavare come un archeologo nella mente è dettata dall’esigenza del procedere nel “grande viaggio”, motivandone le ragioni giorno dopo giorno. Con consapevolezza si libera sempre più di quel che resta della forma assoggettata all’estetica. Una vera fuga dalla banalità iconografica. Paradossalmente costruisce un’anti-estetica che, palesandosi con rara potenza narrativa, ritraccia, oltre agli archetipi genetici che ci legano gli uni agli altri, anche straordinarie e disarmanti narrazioni visive. L’immagine, svincolata dalla sua vanità nell’apparire, si configura in tutta la sua ruvidità descrittiva, liberando con semplicità i sentimenti che la pervadono. Semplificazione che, per quanto meditata, trae la sua forza da uno sguardo ancora bambino che convive non senza contraddizioni con il suo lavoro. Semplificazione rintracciabile a volte, in maniera del tutto embrionale, negli scatti anonimi di chi, privo dell’astuzia del piacere a tutti i costi, si è cimentato in tempi passati nel documentare l’essenziale. Scatti dimenticati, volti dimenticati o perduti, vere testimonianze della semplice rappresentazione del vivere, del com’eravamo. Nascono con queste premesse, le pregevoli annotazioni sul territorio. Censimenti antropologici per non dimenticare. Vere e proprie strategie necessarie per evitare d’interrompere la ricerca che l’uomo ha urgenza di portare avanti nel tentativo di colmare le antiche dicotomie tra il corpo e la mente, tra il pensiero e l’azione, tra l’essere e l’avere. Annotazioni, nel suo caso che, pur semplificate e disponibili alla nostra comprensione, mantengono inalterate le informazioni contenute. Notizie di un territorio che ha custodito nel tempo le sue peculiarità ma che ha difficoltà a tramandare. Ritratti intessuti di quotidianità gestuali, sempre più rare e destinate a scomparire. La predilezione per l’asciuttezza della sostanza lo spinge a indagare tra le fessure dell’esistere, non senza dolore. L’intimo pessimismo che lo avvolge trova una ragionevole accettazione nella certezza dello scorrere del tempo possibile portatore di saggezza. Tutto con equilibrio e giusta misura. Suoi veri punti di forza, incarnati in una personalità che non ha nessun timore a mostrarsi nelle sue manchevolezze. Le fragilità narrate sono le stesse che ci accompagnano e ci appartengono. Caducità senza clamore, come i suoi fiori dismessi, nell’appassire, della loro funzione decorativa ma carichi di contenuti evocativi in una continua magnifica e mutevole imperfezione. Insita nella natura delle cose. Bellezza e imperfezione di “vite minori”. (dalla presentazione di Mariano Cipollini)